Utopie Globali
Una breve riflessione sul tema dell'Utopia, scaturita da uno scritto di Pierre Donadieu del 2013 «La campagna urbana: un'utopia realistica», di cui vi propongo un estratto saliente:

 
 
«[...] Il sociologo Edgard Morin risolve abilmente la questione distinguendo le buone utopie realistiche dalle cattive utopie chimeriche. A favore delle utopie realistiche, la loro capacità di dar vita a società meno ingiuste e ignobili, più libere e fraterne. A carico delle cattive utopie, la pretesa di voler realizzare la felicità degli uomini contro la loro volontà, sopprimendo i conflitti e ignorando infelicità e disperazioni. L'utopia buona, visionaria e creatrice, non è né una profezia né una prospettiva scientifica, ma una speranza: la costruzione di un futuro auspicabile ma non necessariamente prevedibile - in poche parole un progetto di società.
 
[...] La perdita di punti di riferimento, la paralisi dei progetti, la paura dell'ignoto e dell'imprevisto, l'ossessione dell'Altro e dell'Estraneo portano a ripiegare su sé stessi e ad ancorarsi al proprio luogo. Cercare quel che rassicura - le tradizioni, il campanile del paese, l'eterno ordine dei campi o il folclore pittoresco - sta diventando un comportamento sociale diffuso; che conduce talvolta all'esclusione dell'Altro, quando non alla sua distruzione.
 
[...] I progetti di nuovi territori vengono oggi elaborati su misura per la società del XXI secolo. Non per un'Europa sedentaria, rurale, bellicosa e industriale, ma per una società europea, internazionale, pacificata, urbana, mobile e superinformata. La rivoluzione portata dalle tecnologie multimediali e da Internet darà - teoricamente - a ognuno di noi la capacità di accedere a tutti i prodotti culturali, di scambiare, di vendere e di comprare. Questa trasformazione produrrà tuttavia esclusione e agiatezza, in funzione della capacità di accesso alla mobilità e allo scambio multimediale.
[...]
Questi nuovi modi di vita si propagano in tutto il mondo, ma lasciano indifferenti interi lembi di continenti, in Africa, Asia e America Latina, dove la povertà, l'ingiustizia, le malattie e la violenza continuano a imperversare. Sono state proprio le molteplici "velocità" delle società del mondo, i desideri che esse risvegliano, i flussi migratori che scatenano, a far nascere in Jean Viard questa bella idea dello stare insieme, di fare comunità, utopia di urbanità che vuole opporsi alla disgregazione del legame sociale, e aspira a fondare nuove società, in campagna e non solo. Pensiero trasversale, più geografico che storico, spaziale quanto temporale, creatore e visionario, poiché il progetto della società deve sostituirsi alla fatalità della storia.»
 
Siete d'accordo? Non lo siete? A questo punto consiglio un momento di riflessione su queste parole, anche in compagnia, prima di procedere oltre. Potreste scoprire di aver fatto un ragionamento molto migliore del mio!
 

mawsonkerrarchitects 


Paesaggi Globali(sti)

 
Dal 2013, anno della pubblicazione del passo in questione sul libro «Campagne Urbane» sono passati già otto anni durante i quali è successo di tutto: alla luce delle ben note operazioni Greta, Great Reset, e transumanesimi vari, possiamo quindi decifrare molto più approfonditamente il significato di questo estratto.
 
Dunque. Secondo me questo ragionamento è profondamente scorretto dal punto di vista fattuale, oltre che internamente contradditorio.
Si distingue tra utopia buona e cattiva (chimerica), per poi tratteggiare una «utopia di urbanità che vuole opporsi alla disgregazione del legame sociale, e aspira a fondare nuove società».
Fondare nuove società. Un concetto che si basa su questa definizione di «utopia buona» che, a mio parere è contorto e pericoloso. Spiego perché. 
 
Non conosco il sociologo Edgard Morin, ma non posso fare a meno di rilevare che per forza di cose un'utopia non può essere realistica in quanto, come condizione ideale, è un canone impossibile da eguagliare.
Se questa ipotetica utopia buona viene contrapposta all'utopia cattiva in cui vige «la pretesa di voler realizzare la felicità degli uomini contro la loro volontà, sopprimendo i conflitti e ignorando infelicità e disperazioni», non si può tacciare negativamente la voglia di tradizione che permea una gran parte della società come un «comportamento sociale diffuso; che conduce talvolta all'esclusione dell'Altro, quando non alla sua distruzione»: appunto perché è un comportamento sociale diffuso, lo dice Donadieu stesso. E negarlo non sarebbe forse una forma di «sopprimere i conflitti», o la «pretesa di voler realizzare la felicità degli uomini contro la loro volontà», cioè l'utopia chimerica? Che sia forse questa, il sopprimere le altre utopie "concorrenti", una caratteristica intrinseca di questa particolare utopia?
L' autore ha un ordine sociale in mente, e delle visioni immaginifiche in cui calarlo. Questa è la sua utopia, e chi ne ha una diversa viene visto in modo preoccupato e negativo. Ma a dire il vero, «l'esclusione dell'Altro, quando non la sua distruzione», sono una conseguenza diretta di quei «nuovi modi di vita che si propagano in tutto il mondo», che vanno sotto il nome di globalismo, e che sono elogiati in termini positivi nel testo.
Donadieu quindi apprezza un processo che produce inevitabilmente le conseguenze che detesta: descrive raggiante: «La rivoluzione portata dalle tecnologie multimediali e da Internet darà –teoricamente– a ognuno di noi la capacità di accedere a tutti i prodotti culturali, di scambiare, di vendere e di comprare.» poi si rabbuia, torna alla realtà e constata: «Questa trasformazione produrrà tuttavia esclusione e agiatezza, in funzione della capacità di accesso alla mobilità e allo scambio multimediale.» Parola chiave: esclusione. Quella che dovrebbe essere peculiarità di coloro che nutrirebbero «l'ossessione dell'Altro e dell'Estraneo», è in realtà figlia della sua stessa utopia inclusiva!

Oggi, otto anni dopo, possiamo facilmente asseverare come questa visione di un immaginario futuro roseo e prospero si stia rivelando in tutta la sua miseria reale, con la Grande Ristrutturazione dell'economia mondiale in senso tecnofeudale, il lavaggio collettivo quotidiano dei cervelli, la distruzione dell'intima essenza dell'Essere Umano che sono le relazioni, emergenze sanitarie inventate di sana pianta (COVID) che giustificano la demolizione definitiva dello Stato Democratico, censura galoppante da parte del Mainstream...  Sì, questa trasformazione ha prodotto esclusione e agiatezza, Donadieu aveva ragione.
Ma è l'utopia buona, attenzione! Quindi c'è la retribuzione, che ovviamente è indirizzata non alla tua gente (perché non sei esclusivo) ma agli ultimi del mondo (perché sei inclusivo): «dove la povertà, l'ingiustizia, le malattie e la violenza continuano a imperversare» (e sorvoliamo sul peggioramento di questi stessi parametri in Europa).
Le «molteplici "velocità" delle società del mondo» che «risvegliano desideri e scatenano flussi migratori» non sono altro che i vantaggi comparati ricardiani. Così, per realizzare la società inclusiva dove non è permesso escludere l'Altro, dobbiamo accogliere forzatamente e con varie giustificazioni tanti Altri...che per loro stessa natura si aggregheranno nuovamente in sacche di consimili, attuando ancora quella esclusione così tanto aborrita. Perché le società umane funzionano così, e non basta avere un ordine delle cose in mente affinché tutti i processi vi si adeguino. In tal caso si tratta di pura ideologia scollegata dalla realtà.
 
È per ciò in questo meccanismo auto-invalidante che si annida l'insidia dell'utopia. Le conseguenze negative della stessa "azione utopica" vengono proiettate sugli esterni ad essa –coloro che non vi aderiscono– visti come ostacoli, ed ecco che nel tentativo di "risolvere il problema" si sconfina senza nemmeno accorgersene nell'utopia chimerica cattiva di cui si parlava inizialmente.
Ma una frase è ancora più inquietante: «il progetto della società deve sostituirsi alla fatalità della storia». Questa è una evocazione –non so quanto consapevole– della cosiddetta "fine della Storia", o "storia unidirezionale e universale dell'umanità" di Fukuyama. Sostanzialmente lo riassumo come "non si muova una foglia che il Governo Mondiale non voglia".
In questo contesto, «opporsi alla disgregazione del legame sociale, e aspirare a fondare nuove società» nei termini definiti da Donadieu sigifica nel pratico favorire la disgregazione del legame sociale per aspirare a fondare nuove società, sostituendosi quindi alla Storia. Il crogiuolo dell' "uomo nuovo" transumano, aggiungo io, composto dalla fusione tra le tecnologie miracolose e il rifiuto delle identità precedenti, forgiato nella fucina dell'inclusività indiscriminata e globale.
 
I rapporti sociali che adottiamo incorporano almeno parzialmente ciò che siamo, siamo stati, e saremo. Non si determinano autonomamente ma attraverso molteplici fattori, come ad esempio i modi di produzione e i rapporti economici e di classe, i modi di aggregazione sociale, ecc.
Non esistono utopie buone: inseguire un sogno a tutti i costi per portarlo sulla Terra ha sempre causato danni, o chimere come le chiamano. Abbiamo imparato che la realtà si migliora giorno dopo giorno rimboccandosi le maniche e cogliendo regolarmente piccoli frutti. Ma molti si fanno ancora sedurre dal fascino senza tempo delle utopie, dei sogni dell'Età dell'Oro a portata di mano, mai realizzati per colpa di maledetti oppositori maligni.
 

Noi, che vogliamo realmente opporci alla disgregazione del legame sociale, e che probabilmente siamo i campanilisti descritti negativamente come attaccati alla propria terra e cultura, sappiamo tutto questo. Sappiamo anche che per realizzare un progetto occorre rifiutare ogni utopia, attingendo invece all'immenso serbatoio della Storia, della Tradizione, dell'Umanità.

E chi non lo farà si perderà per sempre come un segnale elettrico nella memoria RAM quando viene spenta, cazzacci suoi.
Ma su una cosa il Polemico è d'accordo: «...non è né una profezia né una prospettiva scientifica, ma una speranza: la costruzione di un futuro auspicabile ma non necessariamente prevedibile».
 

cut easydoesit1908
 
 
 
 
 
Posted: 16/01/2021 16:23 — Author(s): Polemicarc

Responses

Anonymous   17/01/2021 19:36
Già in sé la globalizzazione come concetto e iniziativa è una violenza della inevitabilità progressista pensata dall'occidente sul mondo.
È in sé un esclusione di ogni altra globalizzazione culturale di ogni altra proposta culturale che non fa parlare ma estingue inondando di un modus vivendi il mondo intero, schiacciando sotto lo strapotere mediatico occidentale ogni protesta, ogni altra vitalità culturale.
Ipocriti nel solo pensare ad essa.
Ipocriti nel condannare chi le specificità le vuole conservare.

I am not a robot
 
 
 

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