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Maurice Cerasi #urbanizzazione#tecnocrazia#periferia#centro storico
 
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Un'installazione di non-so-chi alla Biennale di Venezia di non-ricordo-più-quando,
da me capovolta di proposito (bella didascalia, eh?)

Questo passaggio è estratto dal libro «Lo spazio collettivo della città» del 1976, come potete leggere nella cartolina. Contestualizzando, si tratta di un libro scritto in un'epoca completamente diversa, dove le situazioni, le necessità e i valori delle persone divergevano di molto da quelli odierni. L'autore scrive in un periodo di revisione critica del boom economico ed edilizio, delle trasformazioni sociali, e molti altri fenomeni bruschi e disarmonici intercorsi durante il primo e il secondo dopoguerra in Italia.

Ciononostante, questo paragrafo sembra essere stato scritto stamattina. Si tratteggia già quello che può essere definito un "deep-state ante litteram" (ooh, tiratemi fuori il complottismo ante litteram ora!), e si identificano epifenomeni economici che plasmano la degenerazione dei nuclei urbani, giustamente additandoli come avversari da combattere. Qualcuno di questi problemi è stato risolto in 44 anni? La risposta è...
NO!
Ma quali sono le cause di questo fallimento?

Sarebbe troppo lungo e improbo esaminare tutti i fenomeni ed epifenomeni collegati a questi insuccessi, ma qui, proprio in questo testo di critica, è contenuto uno dei più importanti semi del fallimento.
Concentriamoci su questo passaggio: «[...] dove una progettazione e metodi decisionali altamente tecnocratici rendono possibili costi e profitti industriali normali, per superare gli scompensi del metodo di intervento per quartieri atomizzati, mal serviti e irrazionali. Una tale politica, che ha risvolti nuovi, potrebbe esercitare un controllo sociale e politico [...]»
 
 
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(Un'altra foto dell' installazione di non-so-chi alla Biennale di Venezia di non-ricordo-più-quando)
 
 
 
Credetemi, è dall'Architettura che si è manifestato ed esteso il decisionismo tecnocratico. Non a caso, più o meno da quando è stato inventato il cemento armato.
L'autore sottolinea i rischi della tecnocrazia nell'amministrazione e dell'urbanistica top-down, come diremmo oggi, per «rendere possibili costi e profitti industriali normali» [nello sviluppo delle attrezzature urbane delle aree periferiche] e per superare l'approccio operativo di intervento per singolo quartiere, a suo dire difettoso.
Oggi vogliamo affermare che l'autore vedeva giusto, anche se personalmente mi par di percepire un certo cerchiobottismo paracularo che tradisce un qualche tipo di ammirazione per questo metodo. Ma chissà.
Qualcuno dirà che è facile parlare col senno di poi, senonché siamo proprio in un periodo storico di regressione democratica e di dittatura tecnocratica, quindi non sembra che la lezione sia stata recepita. Anzi, il fatto che siamo giunti fino al punto in cui ci troviamo, in cui la tecnocrazia utilizza la tecnologia per infiltrare ogni aspetto della nostra vita, indica che questo è stato un lungo processo che si è originato dal punto di vista teorico proprio negli anni in cui Cerasi scriveva. E, credetemi, è dall'Architettura che si è originato ed esteso il decisionismo tecnocratico. Non a caso, più o meno da quando è stato inventato il cemento armato.

Negli Stati Uniti, la critica al Razionalismo e al Movimento Moderno era uscita dai circoli intellettuali e, grazie a persone come Jane Jacobs, a partire dal 1968 aveva cominciato a coinvolgere la società civile sui temi dell'urbanistica, dello spazio pubblico, della residenza ecc, in chiave democratica e partecipativa, bottom-up dicono loro. Cioè l'opposto dell'approccio top-down che descrive Cerasi nel 1976.
Dato il contesto storico ancora scarsamente globalizzato, è lecito presupporre che queste nuove istanze avessero raggiunto appena l'Italia, a livello di dibattito, e che il Nostro stesse lanciando per lo più un grido nel deserto.

Per via del venir meno di quelle forze operaie che avevano un approccio molto istituzionale (tecnocratico se vogliamo) ai temi di quegli anni (la casa, il lavoro, la periferia, i servizi pubblici...) e che influenzavano la produzione e la ricerca architettonica, si è proseguito quasi solamente nella ricerca urbanistica del tipo pericoloso sopra descritto: capitalista e predatore. Questa è stata la base metodologica sui cui poi teorizzare il concetto di smart city (non come la sentite decantata dai media, bensì come la intendono loro).
 
Negli anni, si sono venute stratificando molte variegate esperienze che hanno nei fatti fornito alternative funzionanti all'approccio dirigista e tecnocratico (ma sempre nella cornice capitalista, va da sé). Semplificando, il Nuovo Urbanesimo (o New Urbanism) lavora sul singolo isolato come cellula facente parte di un aggregato, il quale è inserito in un sistema urbano policentrico concepito a livello generale e risolto localmente. Un procedimento che, accoppiato con una politica inclusiva (che brutta parola da usare, oggigiorno) della cittadinanza nella progettazione e sviluppo urbano, e con il patrocinio a debita distanza delle istituzioni statali, ottiene risultati di qualità straordinaria.
Vedremo, si spera l'anno prossimo con la bella stagione, un esempio di questo modo di operare che mi sta particolarmente a cuore, qui nella vicina Olanda.

Ma ricordiamo sempre che il "nuovo urbanesimo" non è altro che la versione capitalista dell' "antico urbanesimo".
 
Posted: 25/10/2020 08:49 — Author(s): Polemicarc

Responses

Anonymous   28/05/2021 14:23
La Biennale è l'edizione 2016 di Koolhaas.
Saluti
J

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